Le recenti
notizie sul precario stato di salute di Joe Ely, confermate direttamente
dalla sua compagna con alcune note sulle pagine social dell’artista texano,
non solo hanno messo in apprensione chi ha sempre voluto bene a questa
voce ribelle dal border americano, ma hanno aiutato anche a chiarire meglio
il percorso discografico più recente, che con l’uscita di Love+Freedom
giunge alla terza opera consecutiva costruita grazie a materiale
di archivio.
Un’esigenza dettata innanzitutto dalle circostanze, ma alla quale si aggiunge
forse la necessità di sentirsi ancora vitale nel proprio percorso artistico,
sebbene pescando tra provini rimasti nei cassetti, “rough mix” registrati
nel corso di decenni e poi rimessi nelle mani pazienti dell’amico produttore
Lloyd Maines. A lui il compito di “inventarsi” un suono attorno alla voce
e alla chitarra di Joe, facendo appello a vecchie conoscenze che della
musica di Ely conoscono ogni centimetro: il batterista Pat Manske, il
chitarrista David Grissom, naturalmente l’inseparabile Joel Guzman, che
marca il territorio con il suono dell’accordion portando dritti in Messico.
Con queste premesse, Love+Freedom è la naturale prosecuzione di
Love in The Midst of Mayhem
e Driven to Drive, limiti
compresi (soprattutto nella scelta di ricorrere a quelle fredde e programmate
sequenze ritmiche, manco ci trovassimo ancora ai tempi di Hi-Res,
album da piena febbre anni Ottanta), ma con una differenza sostanziale
che già emergeva in parte nella coerenza stilistica del predecessore:
nei suoi tredici episodi l’album è percorso da una vivacità inedita e
un entusiasmo che traspaiono dalla stessa voce del protagonista, la qual
cosa lo mette ai ripari dalle più facili critiche. Queste ultime potrebbero
già partire con il rock’n’roll un po’ asettico di Shake’em Up,
mentre l’ingresso del citato Guzman e del suo fluire tex-mex rimette parzialmente
in carreggiata Adios Sweet Dreams.
Ma Love+Freedom è intelligentemente messo insieme con quello che
Joe Ely aveva a disposizione, riuscendo a tracciare un percorso tematico
che, attraverso uno sguardo ai tempi burrascosi del mondo e dell’America
di oggi, canta di immigrazione e povertà, di guerra e ingiustizia, naturalmente
di amore e libertà. Gli episodi dal tepore acustico restano i più brillanti
nella resa finale, anche grazie al materiale altrui (Joe Ely vi ha sempre
fatto ricorso nei suoi album): la dolcissima Magdalene di Guy Clark
e più ancora le due gemme estratte dal cilidro dall’altro gigante texano,
Townes Van Zandt, una incalzante Waiting Around
to Die immersa nel country&western crepuscolare e la più tenera
For the Sake of the Song, nuovamente segnata nella melodia dall’accordion
di Guzman. Insieme alla ripresa del classico Deportee
di Woody Guthrie - già interpretata da Ely nel progetto Los Super Seven
di qualche anno fa e qui cantata in coppia con il discepolo Ryan Bingham
- formano il sostegno all’intera impalcatura musicale del disco.
Tuttavia, nel mezzo non sfigurano affatto il racconto ironico dei rapporti
“complicati” fra Ely e un poliziotto zelante di Sgt.
Baylock, e quello fuorilegge ed epico di Band of Angels,
finalmente in equilibrio tra acustico ed elettrico, alle quali potremmo
aggiungere il country rock al galoppo di No One Wins e il lipido
heartland rock di Today It Did e della reprimenda di What
Kind of War, con buona grazia dell’ospite David Grissom che
sparge i riff delle sue chitarre a ricordo degli anni più rock e ruggenti
del nostro. E pazienza se nel finale Love+Freedom si sfilaccia
un poco, con melodie che stanno in piedi a fatica (Here’s to the Brave,
Surrender to the West) e arrangiamenti che provano a tenere tutto
legato con un fragile spago: la sensazione che ci sia una fiammella accesa,
anche se alimentata a posteriori, ha il compito di non allontanarci del
tutto dalla presenza di Joe Ely, lui come noi a cercare l’idea di una
vecchia America che si è ormai sgretolata sotto i nostri piedi.