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Davide
Buffoli The
Grand Slam
[Honest
Blood 2017]
File
Under:
pop rock
davidebuffoli.com
di
Fabio Cerbone Sei anni da Prices,
tra i migliori tentativi di casa nostra di misurarsi con la scrittura rock americana
più classica, torna il chitarrista e autore varesino Davide Buffoli. La
prolificità a tutti i costi non è mai stata l'essenza del suo fare musica, semmai
molto attento nel perfezionare suoni e arrangiamenti dal respiro internazionale.
La scelta è coraggiosa e denota tutto l'amore che il musicista mette nella cura
dei dischi, anche se il rischio è di restare sempre un po' fuori dal centro dell'attenzione,
quando la qualità della sua musica potrebbe tranquillamente spingere alle corde
diversi "avversari". Cinque brani soltanto per The Grand Slam, che
lascia la bocca asciutta per la voglia di mettere alla prova Davide Buffoli sulla
distanza di un vero album, dopo questa lunga pausa. A maggior ragione per l'impatto
positivo che quanto meno i primi quattro brani riescono a fornire: proseguendo
spedito sulla linea di un mainstream rock dal facile gancio melodico, in un'ideale
albero genealogico che unisce Tom Petty con l'ultimo Ryan Adams (quello dell'omonimo
lavoro del 2014 e del recente Prisoner), Buffoli costruisce l'approccio hard rock
da fine seventies della stessa The Grand Slam, passa al power pop di Born
in the 70's, sorta di omaggio alla propria crescita di ascoltatore e appassionato,
e chiude in bellezza con la rotonda ballad elettrica Walking With You,
e la più "ruffiana" grinta rock stradaiola di Eyes on Me, la prima davvero
in sintonia con il gusto e l'estetica sonora del citato Ryan Adams, la seconda
persino imparentata con l'altro Adams, il canadese Brian. L'ultimo passo, My
Favorite Hour, sembra meno stabile o forse semplicemente il tentativo di sconfinare
nella leggerezza di una pop song, che fra qualche coro e banjo in stile Mumford
& Sons, finisce per essere troppo innocua. Buffoli suona e produce in buona parte
da solo, con Stefano Berto alle tastiere e programming e la voce di Miriam Cossar
in My Favorite Hour. | | |

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Roberto
Diana Raighes
Vol.2
[Raighes
Factory 2017]
File
Under: radici
robertodiana.altervista.org
di
Fabio Cerbone Raighes, "radici" in lingua
sarda, ad esprimere un legame forte di Roberto Diana con la sua terra d'origine,
mai sopito nonostante le mille esperienze per l'Italia e il mondo, che hanno portato
la sua musica a viaggiare lontano, fino ad approdare a Los Angeles e Londra. Chitarrista
versatile (anche banjo, weissenborn, lap steel fra le corde che riesce a dominare),
cercatore di melodie e suggestioni sullo strumento, mai eccessivamente votato
a solismi inutili, Diana lo abbiamo conosciuto soprattutto per la sua lunga collaborazione,
otto anni di storia, insieme ai pavesi Lowlands, per i quali ha prestato la voce
rock della sua chitarra e si è misurato con le ispirazioni folk e roots della
band di Edward Abbiati. Chiusa quella avventura, Diana torna al progetto Raighes,
che qui giunge al secondo volume dopo le belle impressioni e anche i premi e le
menzioni d'onore ricevute con il primo capitolo nel 2012. Undici strumentali che
intrecciano armonie mediterranee, chiari riferimenti alla Sardegna e ai luoghi
natali (Limbara's Eye, Nuraghes), ma anche solide influenze folk
americane (qualcosa affiora in Empty Rooms e soprattutto nella ballata
Dreaming on a Plane) e pulsioni rock (Screaming to the Moon, la
più elettrica e lancinante), che sono alla base della scrittura musicale di Roberto
Diana, qui aiutato da piccoli interventi alle percussioni (Larry Salzman) e alla
batteria (Cristiano Carbini) e qualche volta affiancato dai camei di amici come
Jimmy Ragazzon (sua l'armonica in Last Goodbye) e Giulia Cartasegna (violino
e tampura nell'incantevole melting pot musicale di Walking in London). Registrato
in parte nella chiesa di S. Siro e S.Reparata di Pavia, che ha affascinato Roberto
Diana per i particolari riverberi della struttura, e in parte nello studio personale
di Luras, in Sarsegna, Raighes Vol.2 è una selezione di strumentali
dalla voce limpida, serie di ricordi di vita personale, anche malinconici (Empty
Rooms, Last goodbye) tradotti dalla sensibilità di un giovane musicista. |
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Sugar
Ray Dogs Dirty
Kitchen Songs
[Ultrasound
2017]
File
Under:
kitchen's blues
facebook.com/sugarraydogs
di
Fabio Cerbone La copertina
indugia sugli avanzi di un pranzo che sembra avere lasciato un mezzo disastro
in cucina. Dirty Kitchen Songs, appunto, con un titolo che potrebbe
richiamare altrettanta "sporcizia" sonora, magari fra trame blues e roots che
appartengono alla storia personale degli Sugar Ray Dogs. Nulla è come sembra.
Il riferimento è semmai alla natura delle composizioni di Ernani Ray Natarella,
fin dagli esordi anima del progetto Sugar Ray Dogs (di recente anche con il duo
Delta Junkmen) e qui impegnato in un viaggio in solitaria, fra ballate acustiche
e intime che ci piace pensare siano nate nell'isolamento di un ambiente familiare
come può essere quello della cucina di casa. Conosciuti su queste pagine con il
secondo lavoro Sick Love Affair e apprezzati per le ambizioni di Mexi-Cola,
disco che si avvaleva delle collaborazioni di David Hidalgo (Los Lobos) e Patricia
Vonne, il percorso degli Sugar Ray Dogs pareva indirizzato verso un roots rock
con profumi tex mex e radici country blues. Dirty Kitchen Songs guarda il tutto
da un'altra prospettiva, con il solo Ernani Ray Natarella, sostenuto dalla sua
voce rauca e increspata di blues, che si incammina sui sentieri della ballata
dai sapori Americana in Come Come On Come On, Like a Man On The Moon
e Love Will Not Hit You Anymore. La novità interessante del disco e della
sua natura "unplugged" è quella di presentare a sostegno delle melodie e delle
parti ritmiche della chitarra acustica un quartetto d'archi (Quartetto Scarlatti).
Il connubio è singolare e in alcuni passaggi affascinante (il finale con Soul
Becomes Blind), non sempre riuscito per via di una natura rock che albeggia
in alcuni episodi e viene tenuta a freno, ma senz'altro coraggioso nel recuperare
una formula che rimanda persino al Willy DeVille di alcuni progetti di fine carriera,
vocalità alla quale Natarella può fare riferimento, con tutte le debite distanze.
Otto i brani e la brevità dell'album è comunque un suo punto di forza, senza eccedere
in un mood sonoro che richiede una particolare attenzione. |
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Laino
& Broken Seeds The
Dust I Own
[Off
Label 2017]
File
Under: roots & blues
andrealaino.com
di
Fabio Cerbone Da portici di Bologna alle
strade di Manhattan, il blues di Laino & Broken Seeds si è messo in cammino
secondo la lezione dei padri del genere. Busker nell'anima quindi, con una predilezione
per i suoni più scuri e grezzi della materia, la formazione si è stabilizzata
intorno all'idea di un combo essenziale e ritmico, dove la chitarra resofonica
di Andrea Laino e le percussioni di Gaetano Alfonsi sono il cuore e l'anima di
queste canzoni. Il risultato è The Dust I Own, primo lavoro sulla
distanza dopo l'omonimo ep del 2014 che li ha messi in evidenza su diversi palchi
dei festival italiani a tema (Deltablues e Mojo Shakes fra gli altri). Introdotto
dal tradizionale rivisitato Bo Weavil, a indicare la via fangosa del Delta e la
radice dell'ispirazione della band, il disco sviluppa un blues ipnotico che fra
boogie e svisate psichedeliche non può non rimandare ad alcuni capisaldi di queste
stagioni, in prima linea i North Mississippi Allstars dei fratelli Dickinson e
i Black Keys della prima era, quelli più legati alla terra del blues e all'insegnamento
di Junior Kimbrough. C'è comunque sufficiente personalità in Laino & The Broken
Seeds per uscire da questi confronti ingombranti, dando il giusto spazio a brani
quali Boogie Tale e Fate of a Gambler, torbide come si conviene,
anche nelle liriche, prima di sfociare nei movimenti più sinuosi di On the
Wood, tra le migliori del lotto. Manca a volte un grado di sporcizia in più
nella voce di Andrea Laino, che non avrebbe stonato fra le atmosfere evocate dal
gruppo, sebbene la buona esuberanza strumentale riesca a sopperire con gli interventi
di Mauro Ottolini al sousaphone (in vece del basso e sulla rotta per New Orleans),
dell'ospite Alessio Magliocchetti Lombi alla seconda chitarra e dello stesso Laino
che si cimenta anche all'armonica e al rudimentale diddley-bow (chiedere a Jack
White, nel caso). Qualcosa si sfilaccia un po' strada facendo, ma la rilettura
in morbida chiave elettrica del classico di Mississippi John Hurt, Pay Day,
conferma il percorso del gruppo. | |