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electricana, modern folk blues di
Fabio Cerbone (02/09/2013)
Al
culmine di un percorso che li ha visti lentamente uscire dall'oscura, densa coltre
ritmica che caratterizzava la loro produzione più "intransigente", i Califone
mettono giudizio e toccano vette di intensità con Stitches, disco
che completa il passaggio verso la maturità avviato già con l'intrigante predecessore
All
My Friends are Funeral Singers. Non è facile aggrapparsi alla musica
di Tim Rutili, deus ex machina del gruppo che vede ormai nel solo Ben Massarella
il fido compare artistico dopo anni di sperimentazioni. Non è facile in ogni caso
penetrare in queste ballate un po' spettrali, enigmatiche, in un sound che sa
di polvere e strade blu, ma non riproduce affatto i luoghi più comuni della cosiddetta
roots music. I Califone sono materia da maneggiare con cautela e pazienza, probabilmente
non per tutti i palati, senza dubbio non per chi approccia la tradizione da una
prospettiva sicura e ortodossa, perché qui entrano in gioco elementi che hanno
più a che fare con impressioni, magnetismi, nuance, piccole interferenze, giocando
spesso con il linguaggio post rock, con qualche intelligente "sporcatura" della
trama ritmica, tra loop elettronici e rumori di sottofondo.
Questa raccolta
splende di misteri e magnifici paesaggi, avvicinandoli ai sentieri di frontiera
di Giant Sand e Richmond Fontaine, dei Calexico più rabbuiati di Black Light,
tra lo spleen esistenziale di Mark Kozelek (Red House Painters) e di tutti quei
musicisti che hanno sempre cantato gli angoli bui del sogno americano: gli stessi
che affiorano nel folk imbambolato di Movie Music Kills
a Kiss, che si crogiolano nella trasparente melodia per piano e chitarra
acustica di Moses o si dilatano nel deserto
di una strepitosa Moonbath.Brainsalt.a.Holy.Fool,
con la pedal steel dell'ospite Eric Heywood. Per la prima volta registrato fuori
dal guscio protettivo della loro Chicago, Stitches raccoglie i cocci dalle estremità
geografiche del paese: una prima parte a Los Angeles con la produzione di Griffin
Rodriguez, quindi in Arizona e infine negli studi di Austin insieme a Craig Ross.
Questi luoghi sono entrati irrimediabilmente nelle maglie, stitches per l'appunto,
meglio nelle suture dell'anima che Rutili canta con la sua preziosissima voce,
unica in quella monotonia affascinante. E tra citazioni bibliche e tessiture intime,
il confronto alla fine è con sé stessi: ne è scaturito un ideale compendio alle
visioni (perché di visioni più che di canzoni si tratta) già dispiegate con forza
in All My Friends are Funeral Singers.
È per tale motivo che i due lavori
sembrano da un punto di vista sonoro così indissolubilmente legati: Stitches,
il brano, è una soundtrack sotto mentite spoglie, drammatica e sottile nel suo
tappeto di synth; Magdalene una ballata tra
soul glaciale e psichedelia che spezza il cuore quando infila un crescendo di
fiati e si frantuma tra fraseggi jazz al piano e chitarre noise; Frosted
Tips un rock sghembo e un po' cubista, impastato dalle grasse intrusioni
dei fiati e dai rumorismi che Rutili raccoglie letteralmente per strada. Non sono
scomparsi gli intralci ritmici e certa imperturbabilità, che ritroviamo in Bells
Break Arms e A Thin Skin of Bullfight Dust, sorta di "electricana",
passatemi il termine, che i Califone hanno affinato nel tempo, ma nel mix generale
appaiono come raccordi, momenti di passaggio per non perdere del tutto la bussola
del proprio stile. Poi basta una We Are a Payphone
per raccogliere tutta la latente tensione folk del disco, un brano scritto con
"i nervi, la pelle e il cuore", come afferma lo stesso Rutili.
Stitches
è ben lontano dalla durezza plumbea di Heron
King Blues o dalle ricercatezze di Roots and Crowns, gli album insomma
che hanno tracciato la linea un po' obliqua di Rutili e soci nel destrutturare
il folk blues (ricordiamo che Rutili ci aveva già provato nei 90 con i misconosciuti
Red Red Meat, elettrici e inquieti). In questo senso il disco rapprresenta la
sintesi dell'immaginario cinematografico di Tim Rutili: non piacerà forse ai più
intrasigenti estimatori del primo periodo dei Califone, seppure un vago ritorno
alle atmosfere di Roomsound (2001) è presente, perché qui opera l'età della saggezza
o se preferite della riappacificazione dei Califone. Oltre la tradizione, dentro
la tradizione: un album sanguinante fascino.