On
the banks of Pontchartrain: intervista con Cesare Carugi A
cura di Fabio Cerbone
Incontriamo Cesare Carugi, cantautore
toscano a metà strada tra i sogni di rock'n'roll tutti americani e una
nuova, sempre più agguerrita generazione di musicisti italiani che hanno
sapouto tradurre quel linguaggio in una proposta autonoma e riconoscibile. Parliamo
del suo nuovo lavoro, Pontchartrain, di come è nato e come si è
sviluppato, coinvolgendo quegli stessi colleghi che con lui condividono un percorso
di suoni e influenze.
Dalla
recensione di Pontchartrain: ...Periferie e strade si somigliano un po'
dappertutto, i sogni (quelli che ci sono rimasti o che ci hanno lasciato) pure,
ecco perché la musica di Cesare Carugi non merita affatto di essere liquidata
come semplice riproduzione di un immaginario: luoghi e sonorità parlano americano,
certo - a cominciare da un titolo suggestivo come Pontchartrain,
lago della Louisiana sull'estuario del Mississippi - ma il talento di rielaborarli
con una propria personalità è tutto appannaggio di Cesare, che conferma e persino
rilancia quanto di promettente si erà già intuito dalla pubblicazione del suo
esordio sulla distanza, Here's
to the Road. In quel piccolo e agguerrito movimento (o scena, fate
voi, se avvertite il senso e l'urgenza di quest'ultima) che potremmo definire
la terra "Americana" in Italia, lui rimane senz'altro uno dei più credibili testimoni:
per la qualità e la cura delle canzoni, per un non indifferente modo di interpretarle,
per l'idea che quell'immaginario di cui sopra lo si possa rendere senza l'effetto
di una cartolina (anche la scelta della copertina pare questa volta più azzeccata).
Pontchartrain in tal senso è anche più peculiare del suo predecessore, una messa
a fuoco dello stile di Carugi: ballate umide e intense che danzano sul confine
tra il folk rock di marca tradizionale americana e una vena melodica mai sopita,
sprazzi di rock d'autore e cadenze blues che trovano nella cura dei suoni e nella
giusta direzione dei musicisti coinvolti la carta vincente... LEGGI
LA RECENSIONE
Parto dalla stessa
riflessione che ho fatto nella recensione: luoghi, strade, immagini nel rock'n'roll
sembrano intrecciarsi in ogni angolo del mondo, perché la sua storia appartiene
ormai a tutti. Dunque perché Pontchartrain? Cosa spinge un autore di Cecina
ad abbracciare un preciso immaginario americano: solo la passione e la naturalezza
con cui sei legato a questa musica?
Non c'è solo la
passione per la musica americana, c'è anche una certa sensibilità per la sua storia
e per ciò che succede intorno a noi. "Pontchartrain" è un disco che a tratti è
doloroso, prende spunto dalla distruzione di New Orleans durante l'uragano Katryna
del 2005 ma si estende anche alle nostre disgrazie avvenute col terremoto dello
scorso anno in Emilia (terra alla quale sono legato non solo per motivi sentimentali).
Nelle canzoni viene messa in luce spesso la debolezza dell'uomo, apparentemente
forte nei confronti della natura e delle cose che ci circondano, riflettendo sul
fatto che in ognuno di noi esiste la fragilità. Lo spunto è un lago della Louisiana
le cui bellissime "troubled waters" posso distruggere un'esistenza con niente,
come nel 2005. Detto questo però, c'è un messaggio di speranza chiaro e semplice
alla fine del disco.
Disco che mi
è parso immediatamente come una naturale maturazione del precedente Here's
to the Road: lì forse c'erano misure da prendere, la responsabilità e l'emozione
dell'esordio…come è stato pensare e lavorare a Pontchartrain? Un disco
che hai trovato nell'insieme più semplice o più complicato da mettere insieme
rispetto al precedente?
E' stato più difficile a
livello mentale, nel senso che dovevo assolutamente salire di qualche gradino
nel livello qualitativo. Ho sviluppato una produzione diversa, più curata negli
arrangiamenti, meno classica. E questo è dovuto agli ascolti che spesso erano
fuori da quella scena classica che mi ha permesso di pensare a "Here's To The
Road".
Molte collaborazioni nel disco
segnalano un po' la tua presenza costante nella scena roots italiana, amicizie
che credo siano nate sulla strada, durante concerti e manifestazioni, con Francesco
Piu, Chiara Giacobe, Paolo Bonfanti, i Mojo Filter e tanti altri. Come hai coinvolto
i singoli musicisti e come è avvenuta la scelta a seconda dei brani? Un fatto
spontaneo o hai meditato ogni singolo contributo a seconda delle caratteristiche
di ciascuno?
Il lavoro che c'è nel disco da parte
dei singoli ospiti è frutto di passione, amicizia e rispettiva stima. In Italia
abbiamo dei musicisti fantastici, alcuni dei quali riescono a "entrare" nel brano
in maniera stupefacente. Mi viene in mente un chitarrista con gli attributi come
Marcello Milanese, che ha arrangiato parte di "My Drunken Valentine" pensando
a un gatto che miagolava, o l'idea un po' vintage che avevo per "We'll Meet Again
Someday" che i Mojo Filter hanno preso al volo e riproposto nel loro arrangiamento.
A volte ti rendi conto che ci sono persone che sono "quelle giuste", non penso
di aver sbagliato. Sarà anche fortuna, però è anche ricerca, ascolto, attenzione
e empatia.
Hai qualche aneddoto in
particolare da raccontarci della lavorazione di Pontchartrain con i musicisti
che ti hanno accompagnato? Raccontami un po' come sono avvenute le registrazioni
e quanto tempo hai dedicato alla costruzione del disco.
A
parte le session di registrazione accompagnate da degustazioni di birre buonissime,
non ho particolari aneddoti. Nella stuttura della canzone parto sempre dalla bozza
acustica, faccio spesso attenzione che il pezzo funzioni anche in una veste scarna
per poi affrontarla anche dal vivo in ogni evenienza. Il pezzo cresce da solo
quando poi, nonostante sia una bozza, lo riascolti più volte. Nascono gli arrangiamenti
nella tua testa e raggruppi le idee dopodichè le metti in opera in studio. Non
sempre funzionano, ma il bello della musica è che hai margini per correggere il
tiro. E' stata una lavorazione lunga e faticosa, anche perchè sono stato molto
puntiglioso e peculiare su certi aspetti, forse anche troppo.
Senti in qualche modo di fare parte, con i musicisti citati in precedenza, di
una piccola scena "americana" tutta "made in italy", di qualcosa che
è cresciuto dal basso in questi anni? O pensi sia più una nostra costruzione,
anche di chi tra addetti ai lavori, riviste, webzine, si avvicina ai vostri dischi?
Esiste una scena "americana" in Italia, è innegabile,
ma preferisco pensarla come una bella comunità di amici con la passione per la
musica. Spesso e volentieri le "scene" create ed etichettate in generi non sono
proprio idilliache, spesso si creano gelosie e malumori. In questo momento invece,
tra gli altri, mi sento proprio bene.
Il mood del disco mi è parso, almeno per buona parte della scaletta, molto omogeneo,
ed è forse una delle carte vincenti di Pontchartrain: queste ballate a
cavallo tra rock d'autore e tradizione che mi pare caratterizzino un po' il tuo
stile, anche nell'intepretazione vocale. Hai cercato volutamente questo suono
o è nato strada facendo?
Ho cercato maggiore sapidità
e ho lavorato molto di più sul sound, rispetto al disco precedente. Sapevo di
dover dare una piccola sterzata e di evolvere un po' la mia concezione, che tutt'ora
è comunque "poverella" per la poca esperienza che ho. Ma fin dall'inizio
ho volutamente puntato su un mood più saturo, anche perchè il tono del disco,
anche come messaggio, è più drammatico e meno sognante.
Una curiosità si aggiunge a questo punto e so che a volte è un po' scomoda, perché
non è facile ammetterlo: ci sono stati dischi o artisti in particolare che durante
le registrazioni di Pontchartrain pensi abbiano in qualche modo influenzato
o alimentato la tua direzione? Qualcosa che in modo spontaneo pensi sia finito
dentro il tuo disco…
Succede spesso anche senza pensarci, che
puntando a fare un pezzo in un certo stile, dopo vari ascolti, decidi di dargliene
un altro. Ad esempio un pezzo come "Morning Came Too Early" nato come classic
ballad è diventato un brano abbastanza carico di pathos con un mood new wave/dark,
ci sento un po' di Nick Cave dentro.
Charley
Varrick mi ha colpito subito dal titolo, quel riferimento cinematografico
abbastanza di culto (film del 1973 di Don Siegel con Walter Matthau, ndr): da
dove nasce l'ispirazione per questa canzone? Più in generale cinema e letteratura
sono un bagaglio importante per tradurrre le tue visioni in musica?
Importantissimo,
nelle canzoni e nei loro testi c'è spesso un immaginario molto personale, per
quel che mi riguarda, come se durante il pezzo scorressero delle scene nelle tua
mente. La parte difficile, se non impossibile, è trasmetterlo a chi ascolta. Charley
Varrick è un brano che prende spunto da un particolare momento del film e che
analizza l'argomento della perdita. Come dicevo nella prima domanda, stavolta
siamo di fronte a un uomo dal carattere solidissimo (un rapinatore di banche)
che affronta la morte della moglie sua complice.
Crack
in the Ground mi è sembrata invece una delle tracce più diverse dalle atmosfere
principali dell'album: si sente che ha una intenzione rock molto più marcata.
E allora mi chiedo se non sia una delle possibili evoluzioni del tuo sound, ci
stai pensando? Un Cesare Carugi più rocker…
Solitamente
metto entusiasmo in quello che faccio, soprattutto dal vivo. Vorrei spesso avere
un background più "tirato", forse è che a volte ho un po' timore del risultato.
Cerco sempre un target accettabile, tentando di starmene lontano dalla retorica
facile e dalle solite scampanate che si leggono nei testi delle canzoni più ritmate,
e non sempre è facile. Questione di esperienza.
When
the Silence Breaks Through: qui sarà facile che qualcuno - io mi ci metto
per primo - ti rinfacci quel sax e quell'aria romantica da backstreets springsteeniane.
Lo ammetto, è forse un esercizio di scarsa fantasia del recensore di turno. Aldilà
di tutto: quanto ha giocato quel tipo di immaginario sulla tua musica? Più in
generale hai dei punti di riferimento precisi quando pensi alla scrittura di una
"canzone rock"?
Dico la verità pura e semplice, quando
ho scritto "When The Silence Breaks Through" mi è passata davanti "Racing In The
Street" ma anche una certa atmosfera urbana newyorkese degli anni '80, amori perduti,
affari sporchi sul ponte di Brooklyn, il pezzo grosso in città, roba che forse
oggi è un po' anacronistica, visto che spesso le "streets of fire" fanno ormai
parte del passato. Quindi a volte mi servo anche del fattore nostalgico per scrivere,
come per "We'll Meet Again Someday" per la quale mi sono ispirato molto alle ballad
rockabilly degli anni '50, come "We Belong Together", o "Sleepwalk" di Santo &
Johnny.