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Kelly Joe Phelps
Mister Zen's Guitar
   

Kelly Joe Phelps (Sumner, Washington 5 ottobre 1959 – Iowa 31 maggio 2022)

[a cura di Marco Denti]

Ci deve essere una zona d’ombra dove il talento, spesso florido, smisurato e incontrollabile, trova un’imprevista kryptonite e si avvia a consumarsi, per attrito con la cruda realtà, verso un inesorabile crepuscolo. Di esempi ne abbiamo collezionati intere moltitudini, ma la storia di Kelly Joe Phelps sembra condensarle tutte. Partito in grande stile con un approccio personalissimo alle canzoni e allo strumento (la chitarra e tutte le sue mutazioni), Kelly Joe Phelps ha sfoderato una serie di dischi bellissimi, con una svolta sonora che pareva proiettarlo verso orizzonti tanto imprevedibili quanto suggestivi. È stato uno straordinario outsider, Kelly Joe Phelps, se si ricorda dove è arrivato con Sky Like A Broken Clock e Slingshot Professionals, e che poi, chissà perché o come, si è ritrovato nel girone degli inferi di produzioni a basso costo, dischi registrati dal vivo in fretta e furia, come se fossero tentativi di aggrapparsi a qualcosa che stava svanendo.

Nella sua vicenda, ha contribuito la sovrapposizione tra la dissoluzione di un contratto discografico valido e duraturo, l’insorgere in contemporanea di una umanissima fragilità e di un altrettanto lacerante disappunto. Non è una novità in tempi dominati da strutture meccaniche, automatiche e spietate, e i momenti coincidono: le giravolte della Rykodisc, al tempo etichetta rigogliosa e benemerita che aveva garantito per la parte più importante della carriera discografica di Kelly Joe Phelps, poi assorbita e dissolta nel conglomerato della Warner, lo hanno lasciato a spasso. Sono ingranaggi che non si fermano mai e che una personalità come quella di Kelly Joe Phelps, in gran parte estranea alle logiche industriali e concentrata soltanto sulle qualità artistiche, forse nemmeno sapeva interpretare nel modo giusto. Infatti, da lì, salvo un breve passaggio alla Rounder (dove tutto era cominciato) ha preso forma la svolta verso dischi di una bellezza rarefatta come Brother Sinner and the Whale o, ancora Magnetic Skyline, inciso in coppia con Corinne West. Le canzoni si sono fatte via via ballate scheletriche, dal ritmo al rallentatore e dalla natura disadorna.

Le registrazioni, vuoi per scelta, vuoi per economia, ridotte all’essenziale, se non proprio al minimo sindacale di chitarra e voce, o addirittura strumentali come succedeva in Western Bell. Ma restava un songwriter e un musicista come pochi nella sua generazione, capace di inventarsi un modello di scrittura particolare, ovvero partendo da intere short story che poi riduceva nei limiti delle canzoni. Uno sforzo notevole, che contribuiva non poco alla qualità delle composizioni, insieme al talento e all’abilità con le chitarre (acustiche, in gran parte) che aveva qualcosa di spiritato e inafferrabile, la colonna sonora di un blues lungo una vita.


Roll Away the Blues: gli album


   

[a cura di Fabio Cerbone]

Voleva scalare le vette impervie del free jazz di Ornette Coleman e John Coltrane, ha finito per scoprire il fascino irresistibile del blues più istintivo di Mississippi Fred McDowell e Skip James. La mirabile parabola è apparsa attraverso una musica in prevalenza acustica, un folk blues astrale, sinuoso e figlio dell’improvvisazione che ha contraddistinto buona parte della produzione di Kelly Joe Phelps. Nato come contrabbassista di educazione jazzistica, una gavetta decennale in piccoli combo fin dai primi anni Ottanta, sballottato tra il suo stato di origine, Washington, e il trasferimento a Portland, in Oregon, Phelps è arrivato tardi e pienamente maturo al debutto discografico, una padronanza di mezzi (spesso, soprattutto agli esordi, soltanto voce e chitarra) che un musicista ormai trentenne poteva sfoggiare sia in studio, sia dal vivo, da sempre sua naturale dimensione espressiva.

La prima vera occasione è un contratto con la specializzata Burnside, etichetta di area blues&roots che impone sulla scena il nome di Kelly Joe Phelps con Lead Me On (1994), allineato a quel rinascimento di talenti che nella prima metà degli anni Novanta (da Chris Whitley a Corey Harris passando per il più fortunato di tutti, Ben Harper) si sta riprendendo il linguaggio della tradizione con rinnovanto slancio vitale. Phelps è il più sensibile e tecnicamente estroverso, un onirico improvvisatore votato alla tecnica del fingerpicking e dello slide (chitarra acustica, Resonator e anche lap guitar a 6 e 12 corde) che emergerà con prepotenza nell’ascesa di Roll Away the Stone (Rykodisc, 1997) e Shine Eyed Mister Zen (Rykodisc, 1999), dittico imperdibile di album che perfeziona e amplia a dismisura il suo rapporto con la materia blues, la roots music in generale e l’obiettivo di portarla letteralmente in cielo.

Esaurita per intensità quella ricerca spirituale sul passato folk, da lì non poteva che concretizzarsi la svolta di Sky Like a Broken Clock (Rykodisc 2001), disco dove per la prima volta Phelps si circonda di un gruppo di musicisti (nel quale spiccano Larry Taylor e Billy Conway alla sezione ritmica, rispettivamente basso e batteria), registrando live in studio (da qui ancora l’assillo costante dell'improvvisazione come strumento di liberazione musicale) e concentrandosi sull’esclusiva composizione di materiale originale. L’ep Beggar's Oil (Rykodisc, 2002), messo insieme con scarti e outtake del generoso raccolto proveniente dal predecessore, fa da raccordo per il capolavoro personale dell’artista, quel Slingshot Professionals (Rykodisc, 2003) inciso fra Canada e Seattle, impreziosito dalla presenza di Bill Frisell in sessione e da uno stato di grazia del songwriter Kelly Joe Phelps, qui capace di trasformare le sue ballate in miniature di cristallino country folk d'autore americano attraversato da lampi jazzy.

Tra vicissitudini e sfortune discografiche, demoni, crisi spirituali e un carattere condannato all’insoddisfazione, a quel non volersi mai accontentare dei traguardi ottenuti, nel momento di massimo splendore inizierà per Phelps anche un'inesorabile discesa, un lento sfaldarsi nell’ombra. Tap the Red Cane Whirlwind (Rykodisc/True North, 2005) ha il compito di testimoniare il sacro fuoco delle esibizioni dal vivo di Phelps, le dinamiche e le volute della sua chitarra ma anche i tratti confessionali della sua scrittura folk blues, ma già a partire dal successivo ritorno in studio, Tunesmith Retrofit (Rounder, 2005), molte cose saranno cambiate. È la prima battuta d’arresto o semplicemente il momento in cui la sua musica non riesce a sorprendere come in passato, perdendosi poi nei rivoli di album strumentali (Western Bell del 2009, che segnalerà anche il suo “ritiro” casalingo con la Black Hen, etichetta dell’amico e produttore Steve Dawson di Vancouver), estemporanee collaborazioni (Magnetic Skyline firmato in coppia con Corinne West, 2010), per ritornare quasi inevitabilmente al punto di partenza, ovvero sia alle radici e alla semplicità del suono, voce e chitarra come un tempo, di Brother Sinner and the Whale (Black Hen, 2012).

Nella sua intima religiosità fra country blues e gospel, quel disco sarà anche l’ultimo messaggio nella bottiglia lanciato da Kelly Joe Phelps, da allora sempre più distante dai riflettori e dai meccanismi di un music business dove la sua figura così “intransigente” non troverà più un posto accogliente in questo mondo.

 

    

 


<Credits>