Marco
Fazzini e
Roberto Jacksie Saetti
Mingle With the Universe [Agenzia
X, pp.312]
Un
testimone di molti tempi, un viaggiatore, un grande songwriter,
un esploratore infaticabile, Eric Andersen si è sempre
trovato nel luogo giusto: il Village, Woodstock, la Rolling
Thunder, insieme a Janis Joplin e a Joni Mitchell, accanto
a Bob Dylan o a Lou Reed, come se avesse prenotato un posto
da osservatore privilegiato. In realtà è stato a sua volta
un protagonista assoluto, capace di assorbire una quantità
spropositata di bellezza in forma di romanzi, canzoni, viaggi
e poesie, album in omaggio a Byron, García Lorca, Heinrich
Böll e molto altro ancora.
In Mingle With The Universe li racconta confidandosi
a un manipolo di amici italiani (e americani) che hanno libero
accesso alle sue passioni, e spesso le hanno condivise in
un modo o nell’altro. In cima alla lista, Marco Fazzini e
Robert Jacksie Saetti sono in realtà i cardini di una moltitudine
di autori (Giorgio Checchin, Anthony DeCurtis, Barbara Di
Dio, Gregory Dowling, Michele Gazich, Ian MacFayden, Stephen
Petrus, Paolo Vites) che rincorrono Eric Andersen nelle sue
odissee e seguono i non pochi fantasmi lungo la strada. È
così che Mingle With The Universe è un caloroso omaggio
a Eric Andersen, ma anche e soprattutto alla sua curiosità,
emanazione diretta della stessa fame di arte & meraviglia
dell’amica Patti Smith, ma convogliata con un entusiasmo immediato,
diretto e contagioso.
Eric Andersen è un raro esempio di artista che coltiva la
cultura senza sosta ed è insaziabile nel procurarsi il pane
quotidiano. Nelle pagine di Mingle With The Universe
la sua attitudine è esplorata con lo stesso entusiasmo e nella
lunga ed esaustiva intervista introduttiva, viene descritta
la sua dedizione alla letteratura (“I grandi scrittori per
me sono come angeli protettori, angeli posati su una spalla
a controllare che il lavoro sia ben fatto. Non si tenta mai
di imitare i propri eroi. Ti stanno solo accanto, e controllano
che si proceda, che non si finisca in acque basse o nel cliché
di pensiero e immagine. Ti dicono che non sei solo. E ti incoraggiano”),
l’ammirazione per i sogni e le strade della Beat Generation
(“L’eredità dei Beat sta nel fatto che hanno introdotto gli
americani, e la gente d’ogni parte, a un nuovo modo di pensare
e di vedere, offrendo una alternativa e un modo libero di
esistere, facendo respirare la vita, goderla, esserci dentro”),
l’afflato verso la scrittura e la lettura (“I libri sono come
delle finestre sacre verso mondi sconosciuti”) e le dissertazioni
sulle magie del songwriting (“Forse le canzoni non hanno un’origine
nel reale. Forse fluttuano solamente nelle nubi, e aspettano
di essere tirate fuori dall’aria sottile”).
Non a caso il centro di Mingle With The Universe è
occupato da una selezione di quelli che chiama i suoi “documentari
interiori”, ovvero le canzoni che, secondo l’illustre parere
di Anthony DeCurtis, “senza tener conto dei suoi diversi soggetti,
sembra aver scritto da un luogo profondo dentro se stesso”.
Forse, tra i tanti indizi autobiografici, vale la pena ricordare
che in Time Run Like a Freight Train celebrava “il
poeta che aveva impegnato il suo mistero per un poco di sollievo”.
È il segnale di un cerchio che si chiude da quando i suoi
eroi “erano quegli spiriti ribelli e senza restrizioni che
stavano scrivendo di una vita oltre l’ovvio, e che potessero
demolire barriere”. Se c’è un senso nella ricca e composita
formazione di Mingle With The Universe è proprio quello:
è schierato in senso univoco (ma come si fa a non essere di
parte con uno che ha scritto Blue River?) ed essendo
bilingue, bisogna dire che è un labour of love come ce ne
sono pochi e rende a Eric Andersen quel tanto di giustizia
poetica che si meritava, da almeno mezzo secolo.
C’è una vecchia stagione di sogni infranti
alle spalle e una nuova di incognite che si addensano sul
futuro. Gettato nella mischia del (ri)flusso di coscienza
dei primi anni Settanta, Blue River non è soltanto
il capolavoro personale di Eric Andersen, o quanto meno il
suo disco più amato e conosciuto, ma anche uno degli album
che meglio simboleggiano, nel suono e nelle tematiche, quel
passaggio storico, quando il vento della rivoluzione dei sixties
ha smesso di soffiare impetuosamente e altri obiettivi, più
privati e forse eterni, come l’amore e la ricerca di sé, si
sono presi il centro della scena.
Andersen abbandona gli anni della febbre del folk, dei dischi
acustici per la Vanguard, delle esibizioni nelle coffee house
e dell’eccitazione del Greenwich Village di New York, lì dove
era giunto per imparare i segreti di maestri come Dave Van
Ronk e Tom Paxton e aveva sbattuto contro l’illuminazione
di Bob Dylan, per approdare nell’altra Nashvile del 1972,
terra al tempo di espatriati, outsider di ogni specie, fuorilegge
e rinnegati in cerca di altri stimoli, questi ultimi più bucolici
e raccolti nella loro esposizione, avvolti in un candore country
folk sorretto dai migliori musicisti a disposizione in città.
Blue River non appare all’improvviso: dietro ci sono
già i tentativi di Avalanche e soprattutto del dimenticato,
bellissimo album
omonimo del 1969 per la Warner Bros, dove Andersen anticipa
quel suo buon ritiro che lo condurrà negli anni a seguire
fino a Woodstock, rifugio e feticcio per tanti della sua generazione.
In tasca un nuovo contratto per la Columbia e tante attese
che andranno presto in fratumi (l’etichetta sarà persino capace
di “perdere” un intero baule di nastri, che soltanto anni
dopo rivedranno la luce con il titolo di Stages, l’album
perduto di Andersen), Blue River porta a compimento
quel passaggio verso i sentimenti personali che l’apertura
di Is It Really Love at All riassume in modo magistrale.
Le canzoni di Eric Andersen conservano il linguaggio
poetico e letterario della scuola dei folksinger alla quale
è stato allevato, ma l’intimità delle confessioni è tutta
figlia del suo tempo e si sviluppa attraverso i racconti agrodolci
di Wind and Sand, Faithful e della stessa
Blue River (Keep us safe from the deep and the dark
canta accorato Andersen, cercando un riparo dopo la tempesta
e le sconfitte del movimento), tra le sfuggenti figure femminili
descritte in Florentine e Sheila (brano dal
tono western che si scurisce come una ballata degna di Townes
Van Zandt), nel tono languido e country di More Often than
Not e nel finale struggente di una Round the Bend che
si ammanta di un respiro gospel, cercando una spalla a cui
sorreggersi, che sia Gesù Cristo in persona o solamente un
amico incontrato lungo la strada.
Chitarre acustiche e pianoforte sono centrali nella composizione,
lo stile è gentile e contenuto, anche da parte di co-protagonisti
di studio del calibro di David Bromberg, David Briggs o Grady
Martin, mentre la voce di Andersen è una carezza che si approccia
in maniera affabile, chiedendoci forse di condividere il suo
vagabondare umano, quel tumulto di esperienze, amori, fallimenti
e illusioni che gli anni Sessanta avevano impresso su di lui
come cicatrici dell’anima.