Ormai una vecchia
conoscenza del nostro sito (la prima recensione risale
al 2003 per Uomini in Costruzione), Stefano
Barotti è un apprezzato cantautore che giunge
al quarto album con ambizione di deciso salto di qualità
dal già molto interessante Pensieri
Verticali del 2015. Il Grande Temporale,
infatti, è il frutto di una lunga gestazione che lo
ha portato a registrare anche negli Stati Uniti, e
il progresso pare evidente, perché in queste undici
nuove canzoni spira aria di produzione di primo livello.
Ma soprattutto cambia anche l’approccio musicale,
che abbandona l’amore incondizionato per il rock americano
tradizionale, pur non tradendolo mai, ma si allarga
a nuove influenze che spaziano tra il reggae, il blues,
qualche timida incursione nell’elettronica e in generale
una costruzione delle canzoni più complessa, come
dimostrano fin da subito i cambi di tempo della title-track.
Il disco, come al solito, è un piccolo campionario
di esperienze personali, come la riflessione sulla
congenita vita povera del musicista che scopre comunque
il piacere di fare l’imbianchino per sopravvivere
(Painter Loser), la nostalgia per il calcio
di un tempo di Spatola e Spugna (con Jono Manson
tra gli ospiti), il pop disincantato di Tra il
Cielo e il Prato, i racconti di guerre lontane
di Aleppo. Non mancano i momenti di riflessione,
come la dolce Stanotte Ho Fatto Un Sogno con
i suoi archi o la intima Quando Racconterò,
le dediche ai propri miti come Enzo (si parla
di Jannacci) o la divertente Mi ha Telefonato Tom
Waits. Il disco si chiude emotivamente tra luci
(Tutto Nuovo dedicata al figlio) e ombre (Marta,
riflessione sulla violenza sulle donne), mettendo
in campo un lungo elenco di collaboratori (tra gli
italiani si notano le chitarre di Max De Bernardi
e Paolo Ercoli o la voce di Veronica Sbergia), ben
gestiti dal tastierista e produttore Fabrizio Sisti
e dagli altri addetti alla produzione Alessio Bertelli
e Vladimiro Carboni. Un bel ritorno in campo di uno
dei nostri autori più preziosi.
Franzoni
Zamboni La
signora Marron [Bluefemme
StereoRec 2020]
Marco Franzoni e Manuele Zamboni
sono due veterani del rock italiano, già assieme nella
band dei Noverose tra il 2002 e il 2007. Ed è proprio
in quegli anni che erano nate le prime canzoni e idee
di questo La Signor Marron. Manuele
Zamboni aveva poi seguito una sua carriera solista
(tre album tra il 2006 e il 21012), mentre Marco Franzoni
ha sviluppato, oltre a quella di session-man tuttofare,
anche una carriera di fonico e produttore, nata facendosi
le ossa con Hugo Race tra gli altri, e che lo ha portato
a seguire dischi per i Superdownhome e Omar Pedrini.
E proprio quest’ultimo è stato uno degli artisti che
più ha sponsorizzato la necessità di registrare questo
album, dove i due confessano tutto il loro amore per
la musica d’autore americana, tirando in ballo Bob
Dylan e Townes Van Zandt come numi tutelari. Eppure
dal punto di vista della scrittura queste dieci canzoni
attingono alla grande anche nella tradizione ormai
di lungo termine della scena alternativa italiana,
ma con un tocco sonoro che loro stessi vedono molto
vicino ai Calexico. Registrato a distanza, in pieno
“covid-time”, con l’ausilio del batterista statunitense
Jonathan Womble, la suggestiva tromba di Francesco
Venturini e tanti altri session-men (tra cui anche
Claudia Ferretti alias Claudia Is On The Sofa ai cori)
, i brani del disco sono ben arrangiati in puro stile
da band roots americana, ma descrivono nei testi in
italiano una disillusione sulla situazione di casa
nostra. La cover di Vicenzina e La Fabbrica di
Enzo Jannacci è dunque un significativo tuffo in una
visione pessimista della società che era buono nel
1975 quanto ora, ma anche brani come Non Fa Rumore
La Primavera (con un bel gioco di fiati), Arida,
Controluce, con il suo teso finale, e Oltre
il cortile sanno di disincantata riflessione di
mezz’età.
Dietro il progetto
Thefinger si celano la personalità artistica
e le canzoni di Franco Di Terlizi, autore dell’alessandrino
con diverse prove alle spalle (Sugar Plum Fairy
nel 2004 il disco che lo ha rivelato), nel più puro
spirito dell’autoproduzione e di quel cantautorato
a “bassa fedeltà” maturato negli anni Novanta, con
un’anima divisa tra acustico ed elettrico. Le sue
ballate ossute, mai raffazzonate però nella costruzione
sonora, sembrano un poco figlie della stagione alternative
country e di quell’indie-folk scuro e malinconico
appartenuto a personaggi come Vic Chesnutt e Mark
Linkous (Sparklehorse). Alcune semplici suggestioni
che emergono dall’ascolto di Surfacing,
dieci brani incisi nella scorsa primavera in quell’isolamento
che ha costretto molti alla clausura e alla riflessione
in tempi di pandemia. Thefinger si fa aiutare nella
realizzazione da alcuni musicisti locali che in passato
sono stati al suo fianco nell’avventura Radioking,
oppure da vere e proprie istituzioni del suono roots
italiano, come Paolo Bonfanti, ospite alla chitarra
in Wondering e Remedy. Voce cruda, di
quelle dal fascino impreciso e sofferto, calzante
fra le atmosfere sabbiose di questo folk rock, Thefinger
convince dalla partenza con There and Back Again,
brano dal tepore indie, volgendo poi ai tratti più
rock e melodici di una ballata come What If.
Tra gli episodi meglio riusciti sono da segnalare
Sgt. Tiger e Motel Room of Ocean Blue
(quest’ultima uno dei due brani firmati insieme al
musicista di adozione londinese Trent Miller): desolate
e dolcemente malinconiche grazie alle melodie dettate
dal piano e dalle chitarre acustiche, richiamando
i migliori momenti di quella canzone Americana da
provincia sperduta. Più esuberante l’arrangiamento
di Ian Curtis, dove emerge tra le righe anche
una pastosità pop inglese (come altrimenti, visto
il titolo-dedica alla voce dei Joy Division?), ribadita
anche nel suono pieno e cristallino di Pictures
from a Differnt World. Tuttavia, il terreno più
interessante di questa produzione dal basso restano
gli spigoli da ballata alternative rock anni Novanta
in Remedy, o ancora il finale un po’ “waitsiano”
e bluesy di Endless Sleep, che si trascina
con un vagabondare pigro. Pochi mezzi, ma buone idee.
Folk elettrico e rarefatto,
western immaginario da colonna sonora, paesaggi musicali
un po’ notturni e lunari in questo interessante lavoro
dei ravennati Spacepony, quintetto che lavora
sul corpo di certa tradizione rock americana sporcandola
di morbide visioni psichedeliche, assai debitrici
nei confronti di un intero filone sviluppatosi negli
anni Novanta, tra i viaggi onirici dei Mercury Rev,
il lo-fi dei Grandaddy, lo spleen elettro-acustico
di Sparklehorse e gli orizzonti desertici dei Giant
Sand. Facile evocare certi accostamenti durante l’ascolto
di Pinball Odyssey, sorta di allegoria
della vita stessa, noi come una pallina impazzita
in balia dei colpi dell’esistenza. Più semplice ancora
collegare i fili che li legano a questa onda sonora
se si leggono i nomi di Tony Crow e Matt Swanson dei
Lambchop e soprattutto quello di Mike Watt (Minutemen)
tra i collaboratori che impreziosiscono la ricca scaletta
dell’album, quattordici brani in tutto, con un paio
di intermezzi sonori. Un sentiero comune, un omaggio
alla strada da cui sembra emergere il passo degli
Spacepony, testi, voce e chitarra di Stefano Felcini,
che insieme a David Alessandrini (chitarra elettrica,
e anche un insolito theremin), Francesco Garoia (basso,
violino, tastiere), Nicola Serafini (synth, basso)
e Andrea Napolitano (batteria) muovono dall’introduzione
vagamente morriconiana di Did You Hear Horses Whinny?,
ospite l’ocarina di Gian Michele Carnevali, per fluttuare
poi nelle dolci trame di Butterfly (2nd life),
nell’alternative country di El Sol e fra le
onde di sabbia e tenue psichedelia di Back Home
e Killie Willy the Ghost Clown. Tutta la prima
ideale faccia è la più vicina al cuore “western” degli
Spacepony, che dalla straniante danza di She-Fi
si dirigono quindi lentamente su terreni più rock,
claustrofobici e acidi in L.I.A.R., con un’animosità
garage in Feel Alive e Sleepy, per fare
quindi ritorno al cinemascope di Cosmic Waltz,
molto Calexico nelle intenzioni, e Back to the
Summer. Il cantato sussurrato a volte sembra limitare
gli spazi di manovra e rendere troppo omogeneo il
mood sonoro del disco, ma il fascino e la cura degli
arrangiamenti giocano la loro parte.