La definizione di “Dark Folk One Man Band”, che campeggia
sulla pagina facebook ufficiale del musicista ci aiuta a
toglierci dall’impaccio di trovare la giusta collocazione
alle sfumature sonore che ermegono dal terzo album solista
di Bonny Jack, nome d’arte dietro cui si cela il
polistrumentista Matteo Senese. Per una volta è abbastanza
specifica e onesta da riflettere le sensazioni sprigionate
in Somewhere, Nowhere, sebbene l’album, a
differenza della dimensione live di Bonny Jack, si serva
della presenza di diversi collaboratori, ad ampliare le
fascinazioni “americane” di undici brani autografi che attraversano
la cosiddetta roots music nelle sue numerose incarnazioni,
bianche e nere potremmo dire, che partono dalla tradizione.
Alle spalle, come anticipato, due lavori di matrice più
elettrica, a cominciare dall’esordio nel 2020 con Bone
River Blues e il successivo Night Lore Blues,
che hanno permesso a Bonny Jack di esibirsi su palchi di
festival europei e persino in Sud America, come ci ricorda
il gadget/cartolina al’interno della confezione cartonata
del cd, con la partecipazione al Muddy Roots di Buenos
Aires. Che vi sia un approccio rigoroso alla materia e quindi
anche una credibilità artistica nel declinare i linguaggi
del folk americano lo conferma l’apertura con Uncle
Jack, introduzione al mondo un po’ gothic country
e un po’ blues noir dell’intero Somewhere, Nowhere,
in questo caso episodio trascinato da banjo e violino per
una colonna sonora da ambientazioni appalachiane. Il tenore
scuro, acustico e ancorato alla matrice roots prosegue con
Carnival Alley, attarversata anche dal curioso suono
di uno scacciapensieri.
Alle registrazioni, come detto, si uniscono altri musicisti,
tra i quali Guido Jandelli all’armonica e chitarre, Andrea
Vettor alle percussioni, Ren Vas Terul all’armonica, Tyler
R alla tromba, Alia alla voce, Brian D. al violino e Angelica
Foshi alla fisarmonica. Quest’ultima guida la danza un po’
zingaresca di DamaJuana,
mentre Tell Me e Me & The Allies proseguono
quel discorso “gotico” e folkie, fra musica e invocazioni
nelle stesse liriche, che ci riporta a una certa scuola
alternative country degli anni Novanta che ha avuto nei
Sixteen Horsepower o negli Handsome Family i suoi più fulgidi
rappresentanti. Con Mexican Standoff
viriamo la rotta verso il deserto texano e il confine messicano,
la tromba detta il passo e l’atmosfera si fa più cinematografica:
un po’ scontato forse il contesto e le ombre “western”,
così come il primitivo battito blues delle catene in Mother
Moon, mentre lì dove Bonny Jack e i suoi ospiti sembrano
offrire il lato più misterioso e selvaggio della loro musica
è nella presenza quasi ancestrale di certe melodie che emergono
in The Glacier e Devil’s
Saddle, per chiudere con una sorta di preghiera gospel-folk-blues
sull’oscurità dell’esistenza in Post Apocalypse Song.
Disco inevitabilmente ricco di suggestioni e mondi sonori
che emergono dall’american music più arcaica, reso in una
formula certamente non inedita, e che tuttava riesce a mantenere
una sua personalità.